Stampa
Categoria: Cosa abbiamo vissuto
Visite: 2119

A un anno dagli infausti eventi della notte del 24 gennaio 2018, ripubblichiamo un articolo già apparso nel Sacra Informa Pasqua 2018 (Anno 26 (25) n. 1), con una riflessione non tanto sull'incendio, quanto e piuttosto sulla straordinaria mobilitazione del 1° febbraio successivo.

Il senso della speranza

Il dramma vende: la tragedia ancor più. È così sin dai tempi dell’antica Grecia. Ed è così ancor oggi, come i nostri giornali e telegiornali non perdono occasione di ricordare.
Nel momento in cui accade un evento drammatico, e ancor più un evento tragico, ci si accalca, ci si spintona per poter essere i primi a dare la notizia, a vendere la notizia, ben sapendo quanto, nell’epoca di internet e dei social media, tutto debba avvenire nel minor tempo possibile, giacché il giorno dopo sarà già tardi, non susciterà più interesse in alcuno. La nostra epoca, purtroppo, è contraddistinta da un’elevata mancanza di concentrazione: troppe informazioni, troppe distrazioni ci rendono quasi indifferenti a quanto ci accade attorno e tutto è vissuto come appartenente alla sfera dell’immaginazione, un feuilleton per dirlo in maniera desueta, una fiction per essere più moderni. E questo non può che spronare i giornali e i telegiornali a cercare sempre lo scoop, in toni sempre più incisivi, sempre più incalzanti, trasmettendoci un’idea semplicemente terrificante del mondo attorno a noi.
Incidenti, attentati, esplosioni, incendi, crolli, corruzione, rapine, stupri, omicidi, stragi: questo è quanto abitualmente affolla i media, questo è quanto normalmente occupa maggiore spazio anche nelle nostre conversazioni al bar. Certo: le belle notizie non mancano, motivi per cui essere felici non ci sono negati. Ma, si sa, cattura di più l’attenzione la notizia di una morte rispetto a quella di una nascita, il ritorno di una malattia dimenticata innanzi alla scoperta di una nuova cura, un’operazione andata male ancor prima di una vita salvata. Troppo facilmente trascuriamo il proverbiale bicchiere mezzo pieno, e, in tutto questo, sovente tutto ciò che non è dramma né tragedia finisce quasi per essere percepito come gossip ancor prima che come speranza: speranza che, d’altro canto, assume quasi la forma di una debolezza, nel confronto con “la dura realtà”.

La notte di mercoledì 24 gennaio 2018, un incendio è divampato nel sottotetto del Monastero Vecchio della Sacra di San Michele. E di questo tutti hanno parlato, e a volte persino straparlato, ragione per la quale non è mio desiderio quello di aggiungere ulteriore entropìa a tal riguardo. Ciò di cui, invece, desidero scrivere è di quanto è accaduto nella giornata di giovedì 1° febbraio 2018, a una settimana di distanza: una data che, probabilmente, non dirà nulla ai più, non avendo suscitato particolare attenzione, ma, per qualcuno, una data che non potrà ovviare a restare scolpita nel cuore. Il mio incluso.
Non erano ancora le otto del mattino, di una fredda e, in un primo momento, nebbiosa giornata di metà inverno, quando molte persone, da luoghi diversi, hanno iniziato a percorrere, in piccoli gruppi, il vialetto che dal Sepolcro dei Monaci conduce sino alla Porta di Ferro e, da lì, all’ingresso della Sacra. Dalla Val di Susa, dalla Val Sangone e da Torino, quelle persone si sono date appuntamento non per offrire il proprio tributo al dramma, in grazia divina non declinato in tragedia, dell’incendio occorso, quanto e piuttosto per poter volgere lo sguardo alla speranza, e alla speranza non qual espressione di debolezza, ma qual manifestazione di forza. Quella mattina, alle otto, ad animare quelle persone, a radunare tanta gente, non è stato il pensiero di un caffè, o di quattro chiacchiere al bar. Non ci si è neppure presentati gli uni agli altri, non c’è stata neppure la preoccupazione di capire chi fosse presente, da dove arrivasse o quale fosse la sua storia: no. Il solo pensiero, la sola, comune volontà è stata quella di porsi, quanto prima, all’opera, e all’opera per superare il dramma, per superare l’incendio, rimuovendone gli orridi frutti, nella volontà di restituire, alla Sacra, la propria normalità, la propria vita.
Ed è stata una giornata straordinaria, una giornata intrisa di polvere, cenere e sudore, di legna bruciata, di pietra annerita, trasportata lungo gli stretti corridoi del Monastero Vecchio attraverso lunghe catene umane, un testimone passato di mano in mano in una straordinaria staffetta dal sapore di maratona, e di una maratona al termine della quale tutti i partecipanti sarebbero stati vincitori. Uno a fianco dell’altro, tutti coloro lì presenti hanno agito quasi fossero un unico individuo, una sola persona, dimentichi degli egoismi abitualmente attribuiti all’umanità, dimentichi persino del proprio stesso “io”, o della necessità di affermarlo, in quanto, in simile frangente, avrebbe avuto solo ragione di essere semplicemente un meraviglioso “noi”. Il “noi” proprio di una comunità nata in quel momento, in quelle ore, non per questioni politiche, non per ragioni di fede, non per tornaconti personali, quanto e soltanto, per il bene di quel luogo straordinario che è la Sacra. Luogo straordinario, in ciò, non per la propria millenaria storia, o per il proprio indubbio valore religioso, artistico o culturale; quanto e propriamente perché capace di ispirare in simile maniera tanta gente, e di lì radunarli con il sol desiderio di dare, e di dare tutto quanto possibile e tutto quanto necessario.
Al termine di quella giornata, di quel 1° febbraio 2018, pur ancora ferita, pur ritornata a essere posta sotto sequestro nel rispetto dell’autorità giudiziaria e delle indagini in corso, la Sacra ha ripreso a sorridere. E ha ripreso a sorridere non soltanto in conseguenza alle macerie rimosse o alla consapevolezza, in grazia a tanto lavoro, di poter tornare ad aprire le proprie porte al pubblico quello stesso fine settimana, offrendosi a tutti coloro i quali, per sette giorni, hanno avuto a temere il peggio per essa: la Sacra ha ripreso a sorridere nella rinnovata e concreta dimostrazione di quanto, nella comunione degli uomini, la tristezza abbia a dover cedere il passo alla gioia, la desolazione alla vita, il dramma alla speranza. 

Ciò che desidero condividere con queste mie parole non è nulla di nuovo o di inedito né nella storia della Sacra, né, tantomeno, nella storia del nostro Paese o dell’umanità. È quanto tutti sappiamo da sempre. Ed è quanto tutti, con eccessiva facilità, ci permettiamo di continuare a dimenticare. Ce ne dimentichiamo innanzi a un incidente, o a una malattia. Ce ne dimentichiamo a confronto con le notizie di attentati, omicidi e stragi. Ce ne dimentichiamo innanzi a tutti i drammi e le tragedie la notizia delle quali costantemente ci bombarda. Ce ne dimentichiamo innanzi a un bicchiere mezzo pieno, costretti a doverlo osservare, necessariamente, qual mezzo vuoto in nome di un assurdo senso di realtà.
È il senso della speranza, un senso che trova la forza di brillare nelle ore più buie, che riunisce gli uomini, al di là di ogni individualismo, per permettere a tutti di osservare il mondo sotto una luce diversa, la luce di una nuova alba.

“Le oscurità e le paure non devono attirare lo sguardo dell’anima e prendere possesso del cuore…”

(Papa Francesco)

Ancor più che trascorrere le nostre esistenze rimpiangendo il Paradiso perduto, maledicendo quanto compiuto da Adamo ed Eva nel cogliere il frutto proibito e nascondendoci nel terrore dell’inferno che ci circonda; dovremmo sforzarci maggiormente di stringerci gli uni agli altri, sostenendoci a vicenda e spronandoci a osservare quanto, in fondo, l’Eden sia ancora tutto attorno a noi, se solo lo si desidera trovare.

EMANUELE