Per saperne di più in merito a Domenico Carutti di Catogno, il rimando obbligato è al sito della Treccani, dove sono disponibili tutte le informazioni sulla sua vita e sulla sua produzione letteraria.
Dalla raccolta dei suoi racconti di gioventù, pubblicati in prima edizione nel 1847 e in seconda edizione (rivista e corretta dall'autore) nel 1861 con il titolo di "Gioventù. Racconti", è tratta la seguente narrazione, che offre un'interessante testimonianza della Sacra vista da uno scrittore dell'Ottocento durante una scampagnata d'agosto...
La brigata non era numerosa ma eletta. Eravamo partiti il mattino da C*** quando il sole era già alto sull'orizzonte e dardeggiava, come suole nel mese d'agosto, sulle montagne ora verdeggianti, ora brulle, formanti la pittoresca vallata di Susa; le nostre umili cavalcature in sulla sferza del caldo, stanche e trafelate, col capo basso seguitavano lentamente lor via pel dirupato sentiero, ponendo attenti il piede sui mobili ciottoli che il rendevano pericoloso; qualcuno della comitiva che avea sdegnato d'inforcare un somarello e se ne giva pedestre, soffermavasi di tanto in tanto asciugandosi il sudore, e facendosi aria colla falda del cappello.
- Insomma, diceva l'uno, la vista di questa Sacra di San Michele dovrà costarci cara. Io per me comincio a credere che il suo fondatore l'abbia fabbricata su queste creste non tanto in penitenza de' suoi peccati, quanto per far guadagnare il paradiso a chi la volesse visitare.
Non so quale risposta avessero cotali o simili parole; so bene che la comitiva da qualche tempo era silenziosa; o fosse effetto del caldo o di certa predisposizione d'animo, oppure il fatto provenisse dall'una cosa e dall'altra, noi ce ne andavamo raccolti nei nostri pensieri; la compagnia era geniale, il cuore poteva espandersi liberamente, niuno di quegli instrusi che sono amici di tutti e di nessuno, come ve ne sono tanti, gettava negli animi e nei discorsi quel non so che di contagioso che rende spesso tediosa ed imbarazzata qualunque più amichevole adunanza. Ma chi può leggere nelle segrete pagine del cuore? chi può interpretare il sospiro che fugge dal seno commosso, lo sguardo furtivo o palese che brilla sotto il velo di una donna? Qual cosa è più inesplicabile dell'amore e più di esso rifugge dagli sguardi profani? E perchè ora, scrivendo dopo parecchi anni, si riaffollano alla mente mille dolci e dolorose memorie, simili a musica che in notte tranquilla si oda di lontano? Nell'anima umana si stampano forse indelebili ricordanze, e spesse volte sotto la fredda cenere si nascondon egli vivaci scintille? Ebbene, ancora un saluto a te che ora favelli nel turbato mio cuore, e sovente colori il mio stile colla rimembranza degli antichi affetti; ancora un saluto e un sospiro a quei giorni beati che io vorrei rifare, se all'uomo pur fosse concesso di rivalicare il fiume della vita ed approdare alle ombrose rive che si videro una volta, e la cui imagine ci persegue ed accompagna ora consolatrice ed ora acerba. Se mai gli occhi tuoi cadessero su questi fogli e l'imaginativa ti dipingesse quel tempo, oh non interrogar te stessa! gli anni non corrugano solamente la fronte, e bene avventurato colui che, specchiandosi nel passato, non vorrebbe disdire il presente!
- Magnifico! esclamò Alberto che era giunto il primo dove il monte, piegandosi in arco, offriva un nuovo panorama.
Infatti apparve sotto di noi il villaggio di Avigliana colle sue chiese, e co' suoi due laghetti, posti come due perle su di un ampio tappeto verde, divisi l'uno dall'altro da una stretta lingua di terra, e signoreggianti da un piccolo poggio sul quale sorgono ancora le diroccate mura dello storico castello.
- Qui possiamo riposare e contemplare, disse il compagno stanco, sedendosi.
- Vedete che la via non è poi così orribile, gli disse la signora Giuseppina.
- Certo che facendola con voi, diventa... carrozzabile, rispose l'amico sudato, compiacendosi del complimento.
- Ma dove si trova egli una veduta come questa! e noi Piemontesi corriamo in Isvizzera, nel Tirolo, o che so io, per andare in cerca di ciò che abbiamo in casa? Siamo pure i gran ciechi! esclamò estatico Giorgio, sviscerato amatore del proprio paese.
- E quel diroccato castello in cui fu scoperta non ha guari, scavando, un'armatura compiuta? osservò Carlo giovineto poeta nostro compagno.
- Se fosse in Inghilterra, lo si sarebbe ristorato, descritto, illustrato, continuava Giorgio; qualche poeta, qualche romanziere lo avrebbe fatto soggetto di una qualche pietosa, o terribile narrazione; ci avrebbe dipinto il medio evo, l'età degli amori e delle belle imprese colle sue avventure, colle sue gualdane, coi pennoni, colle corazze, colle corti bandite, e con tutto il prestigio di quell'epoca splendissima, e noi... no non sappiamo neppure a chi appartenessero quelle torri, chi passeggiasse un tempo per quelle vaste sale.
- Eh! eh! adagio un poco, caro mio, interruppe Alberto; che di molti sia così, lo vedo; ma non tutti poi sono al buio di questi memorabili fatti che vi fanno venire l'acquolina in bocca.
- Come? domandò, con un tuono un po' meno inspirato, l'amatore del proprio paese. Se voi ne sapete qualche cosa, ditela, che tutti ve ne saremo grati.
- Via, non c'è bisogno di essere istoriografo col nastro all'occhiello della giubba per sapere che vi abitarono i Conti di Savoia, eredi della marchesa Adelaide, che vi nacquero Umberto II e Amedeo VII, che Federico Barbarossa, dopo incendiata Susa, distrusse Avigliana allora città, lasciando intatto il castello, e che finalmente nel 1690 esso venne diroccato dal maresciallo Catinat.
- E la storia di Filippo di Acaja la dimenticate forse?
- No, ma è troppo tetra e non vorrei rattristare la brigata.
- Avete ragione, diss'io; ma l'origine dei laghi, la sapete?
- L'origine dei laghi? come sarebbe a dire? riprese Giuseppina.
- Oh? non avete mai inteso a parlare del pellegrino, e dell'ospitale vecchierella?...
- Ma voi ci date la baia, mi pare.
- La baia? interrogate tutti gli abitanti di queste valli, e ve ne faranno testimonianza anche per iscritto.
- Sentiamo adunque.
- Raccontate la vostra leggenda, replicò la signora Giuseppina, l'ascolteremo con piacere, se non sarà lunga.
- E così ci riposeremo un poco, proseguì l'uomo stanco.
- Oh la mia storia non ve la dico per ora.
- Senti? vuol farsi pregare!
- No, no, stasera ritornando, passeremo appunto per Avigliana, traverseremo la lingua di terra, lo stretto che parte il lago della Madonna da quel di San Bartolomeo, ed allora vi dirò chi fosse il misterioso pellegrino, e conoscerete l'origine di queste acque.
Così dicendo, io percossi il somarello, mi posi alla testa della carovana, e proseguimmo il cammino più allegri e più loquaci di prima.
- Prostratevi, o signori, io gridai ad un tratto.
La Sacra di San Michele, quel magnifico santuario, collocato come fiammeggiante corona sul cucuzzolo del ripidissimo Pirchiriano, ci appariva dinanzi.
Se in voi, o benigni lettori, sorgesse maraviglia come così all'improvviso ella ci si presentasse agli occhi, risponderò che ciò che succede appunto a chi muove ver essa, passando per Giaveno. Il fianco d'una montagna ne toglie la vista; superatolo, ecco vi compare inaspettatamente la badia fondata da Ugone lo Scucito.
Se non temessi di cadere nel difetto che comunemente viene apposto ai biografi, cioè d'innamorarsi tanto del loro eroe, che vedono tutto ben in esso e nulla di bene fuori di esso, io, che ora non stendo una biografia, ma racconto una scampagnata, non mi periterei di asserire, che la Sacra di San Michele veduta da quel punto è uno degli spettacoli più stupendi che si possano offerire al viaggiatore; ma volendo farvi grazia di una descrizione a modo, rimanderà chi ne fosse vago al libretto che ne ha pubblicato quel valente pittore di penna e di pennello che tutti conoscete, cioè Massimo d'Azeglio; che se foste per natura tenere dell'erudizione, procuratevi il dotto volume del cavaliere di San Quintino, e sguazzatevi per entro a vostra posta.
- Fra la prosa del nostro secolo, diceva l'amatore del proprio paese, è per altro dolce cosa il ritornare colla mente a quei tempi di entusiasmo e di fede. Allora si concepivano e si conducevano a termine opere tali che ora ne paiono favolose. Chi fra il rumore delle nostre strade ferrate, il fume del vapore, lo stridore delle officine e il monotono trottare degli Omnibus, non deriderebbe la pietà di un uomo che, contrito dalle passate colpe, innalza sulla vetta di un altissimo monte questa sede di pace e di religioso perfezionamento? Nel medio evo soltanto nascevano quelle anime generose e pie, ammirabili anche nell'errore; ora ogni nobile pensiero è morto, non più poesia, non più cavalleresche imprese o mistiche tradizioni. Se oggi si dovesse fabbricare un santuario simile a questo, si calcolerebbe quanti mattoni abbiano a trasportarsi, quante secchie di calce e quante giornate d'operai sarebbero da impiegarsi; in quei giorni di entusiasmo e di fede, ciò si compiva come per miracolo; e i popoli maravigliati, nella loro ingenua semplicità, raccontano che gli angeli stessi discendevano dal cielo per porre l'una pietra sopra l'altra.
Alberto, che non pareva uomo avvezzo ad ammirare le cose per la sola ragione che sono di moda, rimbeccò l'elegiaca tirata.
- Anch'io sono nemico della prosa, come l'intedete voi; ma, mio caro, prosa non è sinonimo di trivialità e di cordardia: Nicolò Machiavelli e Fra Paolo vi darebbero le sferzate. Il vostro medio evo è più bello veduto da lontano che da vicino; i pennacchi, le giostre, le donne, le corti d'amore sappiamo pur troppo che vogliono dire. Su cento, uno godeva, novantanove imprecavano la gleba alla quale appartenevano, quasi piante del podere, e maledicevano la profusione delle mense signorili dove si servivano interi cignali, mentre l'esattore inesorabile picchiava alla porta del loro tugurio. Erano, certo, belle le cacce con tante mute di cani, col falcone sul pugno, colle trombe squillanti; ma i cavalli che portavano sul dorso il barone, galoppavano fra i seminati come ora si caracolla sulle piazze; e il servo mirava distrutte dal barbaro sollazzo del suo signore le speranze dell'annata: e se ardiva a muover querela o lasciarne trapelar dallo sguardo il pensiero, poteva benissimo penzolare il domani appiccato ai merli dei poetici castelli.
- Ah! ah! avete la testa piena delle descrizioni di Tito Livio, strillava Giorgio, l'amico del proprio paese.
- Mi vergognerei piuttosto di non averle lette, proseguiva Alberto. - Che se allora non si calcolavano le centinaia di mattoni e le secchie di calce, gli è che una mandra di macchine semoventi, chiamate uomini, portava la soma, coceva i mattoni, tagliava le pietre e non zittiva. Che cosa si fa da un secolo e mezzo, fuorchè demolire gli avanzi del medio evo? Non disprezziamolo, come Carlo Botta, che aveva torto, ma che non era perciò un umanista, come si vorrebbe far credere; lasciamo il medio evo dov'è; e voi specialmente che avete pochi quarti nel vostro stemma gentilizio, ringraziate anzi il cielo che vi ha fatto nascere in tempi nei quali le torri merlate servono di piccionaie e di nido alle rondini. Una volta non si sapeva gridar altro che Roma, adesso ogni sbarbatello strimpilla il chitarrino dei trovatori. Taluno scrisse già: Qui nous délivrera des Grecs et des Romains? e fra breve dovremo anche noi gridare: chi ci sbarazzerà...
- Signor Alberto, disse Giuseppina, i biscottini di Novara, che vi piacciono tanto, furono inventati nel medio evo o ai tempi romani?
- Avete ragione, sono un pedante. Che volete? se occorrono discussioni, io sono sempre un accanito membro dell'opposizione; e non vi è sempre un presidente così gentile per richiamarmi all'ordine.
(continua)