Nuova tappa nella storia della "Sagra" di San Michele, per così come venne presentata ai lettori de La Stampa Sera del 1935.
Siamo a due anni dal video dell'Istituto Luce del 1937 già qui ripubblicato. Ma la passione e l'orgoglio di quell'epoca per il recupero dell'Abbazia risulta egualmente evidente, nel fervore dei lavori ancora in corso.
Buona lettura...
UN MONUMENTO DI ARTE E DI FEDE
La Sagra di San Michele in Val di Susa
I lavori in corso e un vasto progetto - Lo storico edificio ritorna alla luce dopo un-secolare abbandono - 1936: cent'anni di permanenza dei Rosminiani
Recenti sopraluoghi di Ministri: prima quello dell'Educazione Nazionale, S.E. De Vecchi di Val Cismon; poi quello dei Lavori Pubblici, S.E. Razza. Risultato: nuovo ragguardevole stanziamento per i restauri che, lenti in passato, procedono adesso, da qualche mese, con una sollecitudine e un'ampiezza degne delle esigenze del monumentale edificio. Questo rinnovato fascistico fervore di opero fa rialzar gli occhi anche dei turisti al celebre santuario medievale, mèta facile per le escursioni festive, indicatissime nella propizia stagione testé aperta.
La gigantesca abbazia
Percorso comodo. Non v'è più bisogno di affrontare, da S. Ambrogio, la rude mulattiera, erta, tutta gomiti, che — ancora poco tempo fa — obbligava a scalare, fin sulla cima, il monte Pirchirtano. Ora v'è la piana carrozzabile di Giaveno-Valgioie, che, attraverso il colle della Braida, porta proprio a duecento passi dalla Sagra di San Michele, a 962 metri di altezza.
La gigantesca abbazia nove volte secolare, con la sua quadra mole stagliata lassù contro il cielo, risveglia fantasmi piuttosto di guerrieri che di monaci; meno di romiti penitenti che di abati in ricca veste viaggianti sopra mule bardate d'oro. A varcare il primo ingresso si può credere d'entrare in una cittadella. Una triplice linea di fortificazioni serra e protegge i fabbricati a ridosso della chiesa, cui si perviene per estese gradinate. Ma un senso di pace profonda spira dinanzi alla porta principale. Quivi ogni immagine guerresca svanisce. Ci troviamo su di un meraviglioso sagrato, dal quale il versante strapiomba quasi a picco. A ventisei chilometri Superga s'intravede nell'azzurro. A occidente, vette nevose. E a due passi, di fronte al parapetto di quella specie di fantastica terrazza, s'eleva l'altissima parete della chiesa, con cinque absidi, di cui la maggiore, coronata da un leggiadro loggiato a colonne, tondeggia al sommo di un basamento di trenta metri.
Il padre rosminiano che fa da guida introduce a pie dello scalone detto «dei morti», nome dovuto alle salme dei monaci tumulate nei muri. Sei mummie s'affacciano da un nicchione, dietro un'inferriata. L'impressione lugubre è presto vinta dall'ammirazione per la torreggiante vastità dell'ambiente intagliato nella viva roccia.
Si oltrepassa la porta chiamata «dello Zodiaco», dai segni di questo che risaltano nei curiosi bassorilievi. Di là dalla soglia par d'essere in un sonante cantiere. Dovunque, armature, ponti ed enormi puntelli. Il progetto di ripristino e di completamento, opera dell'architetto Alfredo d'Andrade, risale a vari decenni or sono. Ne esiste un plastico a Torino, negli uffici della Sovraintendenza dei Monumenti per il Piemonte, ed offre un'esatta idea di ciò che avrà da essere la Sagra quando le opere avviate siano condotte a termine. Si tratta di riunire frammenti dispersi, di riattare quanto gli scavi e gli assaggi hanno messo in luce. C'è da restituire i sostegni all'efficienza d'un tempo e da erigere, fra l'altro, la vera facciata col campanile, che il superbo complesso di edifici, qual era sicuramente nel disegno del fondatore, non ebbe mai compiuta esecuzione.
Tombe di Principi
Una porticina conduce nel sepolcreto costruito nella prima metà dell'ottocento sullo spazio già occupato dalla cappella d'un preesistente santuario. Nella cripta, per volere di Re Carlo Alberto, riposano da quasi cent'anni i resti di parecchi Principi Sabaudi sepolti dapprima nella Cattedrale di Torino. Iscrizioni del Cibrario contrassegnano le tombe di Margherita di Valois, la moglie del grande Emanuele Filiberto; di Francesca d'Orléans e Maria Giovanna Battista di Nemours, rispettivamente prima e seconda moglie di Carlo Emanuele II; di Emanuele Filiberto di Carignano, il principe «sordomuto», dell'ex Cardinal Maurizio e della consorte sua principessa Ludovica.
La fondazione della Sagra è di poco anteriore al mille. L'Arcivescovo S. Giovanni Vincenzo aveva lasciato l'anno 997 la cattedra di Ravenna per ridursi cenobita nelle solitudini della val di Susa. Qui si die a far rifiorire il culto di San Michele, ricostruendo, sulla vetta del Pirchiriano, un'antica chiesetta longobarda. Ora accadde che un facoltoso principe alverniate, Ugo di Montboissier, cosi gaudente e spendereccio da guadagnarsi il nomignolo di «Scucito», ravveduto e desideroso di espiare, recatosi a Roma, fosse dal Papa rimandato per consiglio a S. Giovanni Vincenzo. Questi colse il destro per realizzare il sogno d'un imponente santuario dedicato a S. Michele. Eccolo, dunque, chiedere al Montboissier la erezione dell'abbazia, tappa per le affaticate schiere di romei, tempio di fede e di cultura da cui la valle, allora miserrima, avrebbe tratto luce di civiltà cristiana. E l'abbazia doveva sorgere sul più alto sprone del Pirchiriano perchè più meritata riuscisse l'assoluzione tanto per il Montboissier quanto per la moglie di lui, Isengarda, già partecipe delle sue dissolutezze.
Il penitente procede subito all'acquisto del territorio, ch'era di dominio di Arduino I d'Ivrea; si aggiunsero vari possedimenti e si avviò la costruzione sotto la diretta vigilanza del santo Arcivescovo, che sembra però non abbia potuto vivere abbastanza da assistete alla consacrazione.
S. Giovanni Vincenzo morì a Celle, sul monte Caprasio, l'anno mille e la sua salma, portata poi a S. Ambrogio, fu tumulata sotto l'Altar maggiore della parrocchiale. A primo abate, nel 999, era nominato l'alverniate Adverto: primo d'una serie di venticinque abati « per lo più savoiardi, francési e piemontési, che governarono per circa quattro secoli il monastero», come informa G. Gaddo nella più recente pubblicazione sulla Sagra (Tipografia Montrucchio, Torino 1935), un ornato volumetto che rifà con chiarezza la storia del monumento dalle orìgini ai giorni nostri, ricordandone i fasti; religiosi e militari, illustrandone le. dovizie architettoniche e decorative: gli archi, i pilastri, le tombe, gli affreschi, gli innumerevoli fregi, nonché, con accurati cenni descrittivi, le sei tavole e la predella dipinte, nel sec. XVI da Defendente Ferrari di Chivasso.
La monografia del Gaddo viene opportunamente ad aggiornare la bibliografia creatasi intorno alla Sagra e iniziata, si può dire, nel 1829 da Massimo D'Azeglio, che vi dedicò un fascicolo corredato di stupendi disegni da lui eseguiti su abbozzi ripresi sul posto.
Splendore medievale
Avverte qualche storico che ben poco rimane degli edifici sorti all'alba del mille coi mezzi forniti da Ugo. Si attribuiscono al gruppo iniziale la Foresteria, a bifore di tipo romanico, e un isolato edificio ottagonale, oggi assai diroccato, che si ritiene fosse una chiesetta per il cimitero dei monaci.
Del secolo XII sono l'accennato basamento con le absidi e le gagliarde fortificazioni: tra di esse, sulla rupe al margine dell'abisso, una torre ridotta, a sgretolate vestigia: precisamente il rudere da cui si racconta che la «bella Alda» — durante le fazioni al tempo del Barbarossa secondo alcuni, nel seicento secondo altri — spiccasse il suo prodigioso salto nel vuoto per isfuggire alle insidie di un soldato. Pura favola o amplificazione d'un fatto reale? Ma! A ogni modo l'episodio, notissimo, è così radicato nel sentimento e nella tradizione popolare da non esservi visitatrice che, giunta appena là sopra, non chieda al cicerone d'indicarle la famosa rupe da anni ufficialmente battezzata, perfino nelle piante degli architetti e negli incartamenti burocratici, la «rupe della bell'Alda».
Nel Medio Evo la Sagra ebbe periodi di supremo splendore; fino a trecento frati vi trovavano normale alloggio, ed esercitava sovranità su centoquaranta fra borghi e castelli.
Mancano notizie certe sull'epoca d'inizio del vasto tempio in istile gotico, che oggi si ammira e più si ammirerà col procedere dei lavori in corso.
Fu teatro di contese armate e gli spalti risuonarono spesso dello strepito di soldatesche. Nel 1376, dopo un violento saccheggio consumato da milizie straniere, cominciava la lunga decadenza. Nel 1379 l'abbazia veniva eretta a commenda. L'anno 1632 il Papa Urbano VIII soppresse i monaci e la Sagra passò in appannaggio a Principi Sabaudi. Eugenio di Savoia-Soissons, il glorioso condottiero, fu appunto commendatario di San Michele, il cui emblema portò costantemente sulla corazza.
Secolo XVIII: l'abbandono si accentua. Soltanto Carlo Felice e Carlo Alberto cominciarono a ridar cure all'insigne monastero. Il futuro esule d'Oporto, che aveva ripetutamente manifestata il desiderio di esservi sepolto, chiamò a custodirlo i Padri Rosminiani. Questi vi entrarono il 13 ottobre 1836 in numero di dodici, stabilendovi un noviziato; e l'anno venturo — centenario della loro permanenza — celebreranno la data, chiamando le popolazioni delle valli a onorare l'Arcangelo San Michele, Principe di Pace.
C. Merlini
18 giugno 1935